La mia idea del Kerala

Allora sei stato in India. Ti sei divertito?

No.

Ti sei annoiato?

Neppure.

Che ti è accaduto in India?

Ho fatto un’esperienza.

Quale esperienza?

L’esperienza dell’India.

 

 

Così scriveva Alberto Moravia di ritorno da un suo viaggio in India negli anni Sessanta come inviato del Corriere della Sera. Un viaggio che fece in compagnia di Elsa Morante, sua compagna di allora, e di Pierpaolo Pasolini, anche lui incaricato di scrivere un reportage per un quotidiano. I due grandi scrittori e giornalisti tracciarono un ritratto diverso, ma complementare, di questa grande nazione: più razionale, attento a coglierne gli aspetti storici e sociologici Moravia, più emotivo, di pancia, Pasolini. Che non a caso intitolò la sua raccolta di articoli L’odore dell’India.

Rientrata io stessa da pochi giorni dal Kerala, nel sud-ovest dell’India, mi chiedo: che cosa mi resta di questo viaggio? Qual è stata, per usare le parole di Moravia, la mia ‘esperienza’ dell’India? La mia ‘idea’ di questo Paese?

Quando dici a qualcuno che stai per partire per l’India, o che sei appena tornata, hai di solito due reazioni opposte: da un lato i meditativi, che con sguardo sognante nominano subito il Taj Mahal, incensi e pashmina fruscianti. Dall’altro i pragmatici, che ti snocciolano consigli su fermenti lattici, bevande da evitare e l’inquinamento del Gange.

Il Kerala naturalmente è solo una parte dell’India. È uno stato del Sud del Paese, con alcune caratteristiche ambientali, culturali, gastronomiche eccetera diverse dalle altre zone dell’India. Ma penso che una caratteristica comune di tutta l’India sia la sua ‘intensità’. Tutto è estremo, amplificato: colori, odori, profumi, temperature, rumori del traffico, voci delle persone. Piogge e umidità che senti fin nelle ossa, se ci andate come me nella stagione dei monsoni. Un viaggio in India ti avvolge e coinvolge. In certi momenti ti stravolge anche. L’India è una gigantesca sinestesia, che ti assorbe con tutti i sensi: non puoi camminare per le strade o osservare il panorama e azzerare le tue percezioni e le tue emozioni.

Bisogna andarci un minimo preparati: se non a livello di guide Lonely Planet in valigia, almeno a livello di disposizione mentale al confronto con un’esperienza sicuramente nuova e sfaccettata. Sono partita con l’intento di avvicinarmi all’’India in punta di piedi, senza aspettative preconfezionate.

Homi K. Bhabha, il filosofo e teorico indiano del postcolonialismo, l’autore di Nation and narration, parla dell’ accostarsi a ogni nazione e alla sua narrazione non come qualcosa di omogeneo e indifferenziato, ma in continua ridefinizione. Anche Edward Said, del resto, nel suo possente saggio Orientalism, invitava a riflettere sulle molte ‘costruzioni’ culturali che nel corso della storia sono state fatte dall’Occidente.

 

 

Da ogni viaggio non si torna mai uguali a come si è partiti. A maggior ragione da un viaggio in India.

Il Kerala è uno stato affacciato sull’Oceano indiano e mar d’Arabia noto per le sue spezie e la sua natura rigogliosa. God’s own country, la Terra degli dei, l’hanno soprannominato. La leggenda racconta che la dea guerriera Bhadrakali, generata dal terzo occhio del dio Shiva, dopo aver sconfitto il temibile demone Darikan, avesse ricevuto dal dio il compito di scegliere un luogo sulla terra dove stabilirsi per vegliare sul genere umano. E Bhadrakali scelse senza esitazioni questa terra rigogliosa ricca di palme da cocco, come dice il nome stesso del Kerala: kera “noce di cocco” e allam “terra”. Da sempre le sue ricchezze hanno ingolosito gli stranieri, a partire nel Cinquecento dai portoghesi di Vasco de Gama, e poi olandesi, inglesi, tutti a caccia delle sue spezie preziose, curcuma dorata, cumino, coriandolo, legno di sandalo, tè pregiati dalle coltivazioni del Munnar.

In Kerala le spezie fanno parte della vita quotidiana delle persone, tutto ciò che si mangia è molto saporito, servito con ciotole di spezie di accompagnamento, a partire dai dosa che si mangiano a colazione, le crepes con ripieno di patate speziate, servite con una ciotola di sambar (una zuppa di lenticchie calda) e una ciotola di fresco chutney. Le spezie in Kerala diventano poesia. A ogni pasto vengono in mente le parole di Chitra Banerjee Divakaruni, la scrittrice indiana autrice dello stupendo libro La maga delle spezie, dove la protagonista racconta:
Ne conosco origini, significato dei colori, profumi. Posso chiamarle una per una con il nome assegnato loro quando la terra si spaccò come una scorza per offrirle al cielo. Il calore che emanano mi scorre nelle vene. Dall’amchur, la polvere di mango, allo zafferano tutte si piegano ai miei comandi. Un sussurro, e mi svelano proprietà segrete e poteri magici.

La prima sensazione, anche sorvolando il Kerala in aereo, è di una terra immersa nel verde. Ovunque alberi da cocco svettanti, banane dalla pelle rosata, ibisco rosso e fucsia che sorride come labbra generose nei giardini, ghirlande di fiori gialli poste davanti alle statue di Ganesh (il dio dalla testa d’elefante) e di altre divinità. Una forza della natura i grandi alberi di banyan tree, rispettato come l’albero dell’immortalità, dal tronco potente e dalla chioma immensa, sotto la quale fin dall’antichità si raccolgono persone e mercanti alla ricerca di ombra e di conversazione. I vestiti delle persone sono sempre vivaci: i salwar kameez e i sari delle donne sono gialli, rossi, azzurro intenso. Solo chi lavora negli uffici, addetti alla sicurezza, poliziotti in divisa o chi cerca di ‘occidentalizzarsi’ usa tinte più tenui.

Questa esplosione di colori mi ha colpita nonostante io sia andata in Kerala a luglio, stagione di monsoni. Il cielo è spesso cupo di nuvole, sventola la bandiera rossa sulla mezzaluna di sabbia dorata di Kovalam (la spiaggia più bella dell’India che tanto piaceva ai Marahaja e popolarissima negli anni Settanta tra gli hippy che vi facevano tappa nei loro viaggi verso Goa e verso lo Srilanka).

Il mare e le spiagge in questa stagione senza turisti sembrano distese infinite, per chilometri non vedi nessuno e senti solo l’infrangersi delle onde e il vento.

 

 

Fare yoga all’alba, di fronte a questo palcoscenico naturale, è incredibile. Hai davvero la sensazione dell’essere lì, in quel momento preciso, unico, irripetibile e speciale. Un puntino vestito di bianco davanti all’infinito del cielo e del mare.

Di colpo il mare si increspa feroce, la pioggia diventa intensa e sferzante. Il tasso di umidità è altissimo, negli edifici e negli hotel passano a fumigare contro i mosquitos, si dorme sotto le zanzariere. Le piogge ti bloccano ovunque tu sei e ti obbligano a cercare un riparo. Non è raro che salti la luce.

Pochissimi i turisti stranieri, in questa stagione. Solo vacanzieri indiani e i cultori dell’ayurveda. Il Kerala ha una lunga tradizione ayurvedica, i migliori college ayurvedici sul modello inglese sono sorti qui nell’Ottocento. Secondo l’Ayurveda, parola che viene dal sanscrito, ‘la scienza della vita’, ognuno di noi è un mix di umori (pitta dosha kopha) che devono equilibrarsi. In tempo di monsoni, l’umidità apre meglio i pori, pelle e organismo sono più ricettivi, mi hanno spiegato. Mi sono lasciata affascinare dallo shirodara: l’olio ti viene versato lentamente al centro della fronte da un vaso di metallo posto sopra la tua testa, e ti scorre nei capelli, come un nutrimento del corpo e dell’anima. È un rituale che richiede tempo, e ti ‘regala’ tempo, a te e al tuo corpo.

Sono andata in giro per Trivandrum, la capitale del Kerala. Dal 1991 il suo nome ufficiale è Thiruvananthapuram, nome lunghissimo, come parte del processo di ridenominazione di molte città indiane a partire dal 1947 con la fine dell’Impero britannico: per staccarsi dal passato inglese Benares è ora Varanasi, Bombay è Mumbai. Il momento in cui l’India proclama la sua indipendenza dagli inglesi ha avuto una potente trasposizione narrativa nel romanzo di Salman Rushdie Midnight’s children, in cui vengono descritte le vite di mille bambini nati allo scoccare della mezzanotte di quello specialissimo 15 agosto 1947 e la cui vita sarà per sempre intrecciata allo sviluppo del loro Paese.

Come racconta il protagonista: Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. […] nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza, io fu scaraventato nel mondo […] io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese.

Non necessariamente cambiare appellativo alle città ha portato cambiamenti sostanziali, nel caso di Trivandrum quasi tutti continuano a chiamarla col nome inglese.

 

 

La città si snoda lungo la Mahatma Gandhi Road, l’arteria che l’attraversa come un organismo vitale che pulsa continuamente: il traffico è caotico all’inverosimile, scooter e i tuk-tuk, i tipici risciò motorizzati, sbucano da tutte le parti, gli autobus pubblici hanno finestrini abbassati e sedili sfondati come nei film. I taxisti stessi fanno fatica a destreggiarsi in quella gimkana di passanti e di mezzi nelle strade di città e, nei villaggi, per le persone che spuntano improvvise a qualunque ora.

Al mercato del pesce le donne urlano battagliere per attirare l’attenzione dei clienti sulla loro bancarella e portare a casa qualche rupia. Al Chalai Bazaar i negozi di fiori hanno appese all’esterno collane di petali rossi, bianchi e gialli da portare ai templi; tante le bancarelle di cibo, dosha, samosa, succhi di frutta e bevande. Nei negozi più grandi, appena entri ti offrono il tè, ti indicano le loro toilette impeccabili (sempre un valore aggiunto in India): è il segnale di inizio della trattativa. Ti mostreranno ogni cosa, dai tappeti alle maschere Kathakali agli specchi di metallo agli scrigni in palissandro.

E più tu dirai che non hai spazio in valigia o che non ti interessa, più loro ti mostreranno statue giganti di Ganesh e sculture di legno sempre più improbabili. A volte sembra che più che venderti qualcosa vogliano raccontarti il loro mondo. E alla fine, in quel turbine di parole, di numeri, di aneddoti meravigliosi, ci si sente come in un racconto di Marco Polo all’imperatore o di Sherazade: non si sa più dove siano i confini tra mondo reale e fantasia. A me piacciono queste conversazioni infinite, nel corso dei viaggi ho sviluppato le mie tecniche di negoziato, e anche per loro venditori è un punto di orgoglio dialettico cercare di convincere il cliente più esigente.

Nei ristoranti vegetariani frequentati anche dalla gente del posto si mangia su grandi foglie verdi di banano su cui vengono messi mucchietti di curry dai sapori diversi: i camerieri girano continuamente tra i tavoli con i loro contenitori metallici e distribuiscono cucchiaiate e roti croccante, quando sei sazio pieghi in due la foglia verde. Sono molto reclamizzati i family restaurant, locali dalle lunghe tavolate per tutta la famiglia.

 

 

La città di Trivandrum è un buon esempio delle molte sfaccettature di questo Paese, delle sue dinamiche di tradizioni millenarie e di innovazione. Il tempio di Padmanabhaswamy è il fulcro della città, anche in una giornata di pioggia è gremito di persone; nella strada accanto al tempio i negozi vendono gli abiti rituali per i fedeli; non posso entrare perché il tempio non è aperto ai non hindu. La Gopuram, è la torre monumentale all’entrata, sette piani, alta una trentina di metri, come una bianca filigrana preziosa, un merletto di pietre sacre che si erge in mezzo a un continuo vociare. Come scriveva Moravia Il tempio induista non ha niente delle nostre chiese, luoghi chiusi e silenziosi favorevoli al raccoglimento contemplativo, bensì è una specie di mercato sacro, pieno di un andirivieni e di uno strepitio senza sosta.

Namaskaram o Namaste è il saluto in India le persone si rivolgono continuamente. Significa Mi inchino al dio che si manifesta in te: si congiungono le mani all’altezza del cuore e si piega il capo in segno di rispetto per l’altro.

Il Kerala è una parte dell’India dove le religioni coesistono con tolleranza: hindu, islam, cristianesimo. La tradizione narra che San Tommaso Apostolo giunse sull’istmo di Kochi, in Kerala, nel 50 d.C. creando una prima comunità cristiana. Poi arrivarono ebrei, cinesi, fino ai portoghesi di Vasco de Gama. Lontano dal tempio, in periferia, sorgono i moderni quartieri dell’informatica e il centro Vikram Sarabhai di ricerche aerospaziali: anche l’India punta allo spazio. E la tecnologia rappresenta per molti indiani la chiave di riscatto sociale. Diventare ingegnere, uno dei traguardi sociali più ambiti.

Arundhaty Roi, la scrittrice indiana autrice del bestseller Il dio delle piccole cose, vincitore del Booker prize 1997, ambientò il suo libro proprio in Kerala, in un piccolo villaggio della zona delle backwaters, a lei ben nota per parte di madre. In un’intervista dichiarò:

Era l’unico posto al mondo in cui le religioni convivono, c’è il cristianesimo, l’induismo, il marxismo e l’islam e tutti vivono insieme e si strusciano l’un l’altro… Ero consapevole delle diverse culture quando stavo crescendo e ne sono ancora adesso consapevole. Quando vedi tutte le convinzioni in competizione sullo stesso sfondo ti rendi conto di come si vestono l’un l’altro. Per me, non potevo pensare a un luogo migliore per un libro sugli esseri umani.

Attraverso la storia di due fratelli gemelli e della loro madre, Ammu, che è divorziata, quindi senza uno status sociale, Roi racconta la complessità del vivere in India secondo le consuetudini vigenti, dal sistema delle caste alle leggi non scritte ma praticate, come quelle che lei chiama le leggi dell’amore, che stabiliscono ‘chi deve essere amato, e come’. Sullo sfondo di trent’anni della storia dell’India, dagli anni Sessanta in poi, attraverso una narrazione non lineare e uno stile che a qualcuno ricorda il realismo magico, si snoda la storia d’amore contrastata tra la madre dei gemelli e un uomo a cui anche i bambini sono affezionati, la cui unica colpa è appartenere alla casta degli intoccabili, cosa che rende per loro impossibile avere una relazione stabile, e costringendoli adaccontentarsi delle piccole cose.

Anche dopo, nelle tredici notti che seguirono la prima, per istinto si aggrapparono alle Piccole Cose. Le Grandi Cose stavano acquattate dentro. Sapevano che non c’era posto dove potessero andare. Non avevano niente. Nessun futuro. Perciò si aggrappavano alle piccole cose’. Mentre gli altri bambini della loro età imparavano altre cose, Estha e Rahel impararono che la storia pone le sue condizioni e riscuote ciò che le è dovuto da coloro che infrangono le sue leggi. Sentirono il suo colpo sordo e nauseante. Annusarono il suo odore, e non lo dimenticarono mai più. L’odore della storia. E l’Aria era piena di Pensieri e Cose da Dire. Ma in momenti simili vengono sempre dette solo le Piccole Cose. Le Grandi Cose si acquattano dentro, non dette.

Ero partita per il Kerala con qualche apprensione; tra Kerala e Italia è ancora aperto il caso dei due marò accusati di avere ucciso due pescatori del posto. Durante la stagione dei monsoni, i pescatori dalle barche più piccole non osano sfidare il mare, troppo pericoloso anche per loro. E allora si adattano a trasportare i turisti che desiderano vedere le backwaters, i canali interni lungo le foreste pluviali per cui il Kerala è famoso.

 

 

Sono delle vie d’acqua che anticamente venivano usate per il trasporto di prodotti (riso, cocco, copra) e che fungevano da via di comunicazione, in pratica erano le autostrade del Kerala. Con cautela siamo saliti sulla barca di Edwin, un pescatore locale che guida le barche a Poovar. All’inizio ci guarda con un po’ di distacco; l’hotel dove alloggio ci aveva dato per il packed lunch una capiente borsa termica con tartine e spiedini vari, persino una bottiglia di spumante. Gli spiego che proprio quel giorno è il mio compleanno, per cui l’albergo che mi ospita ha voluto coccolarmi in modo speciale. You important people dice Edwin. Sorrido: just people, gli ripeto just people.

Sorridiamo tutti. E quando si arriva all’estuario di Poovar, dove il canale sfocia nel mare, invitiamo Edwin a mangiare con noi, seduti sulla sabbia. All’inizio è un po’ reticente, poi si unisce al picnic, comincia a raccontare di sé, di come sia difficile uscire a pesca nella stagione dei monsoni, delle sue figlie (e non è semplice nella complessa società indiana provvedere anche economicamente per le figlie femmine). Lui non ha studiato molto ma dice con orgoglio che il suo tutor ha studiato Latino. Gli raccontiamo qualcosa dell’Italia, esprimiamo apprezzamento per la bellezza della spiaggia, una golden beach dalla sabbia finissima, per i cavalli bianchi che galoppano in lontananza. Cerco di addolcire un po’ il mio accento inglese abbastanza formale. Brindiamo con il vino Sula, il vino della regione del Kerala.

Il viaggio in barca prosegue tra mangrovie, intricate come pensieri; vecchi dalla barba bianca lavano i panni sbattendoli lungo la riva, di tanto in tanto qualche sari colorato di donne che abitano nei villaggi si intravvede tra le palme, figure sinuose lungo i sentieri interni; immagino i loro lunghi capelli scuri intrecciati di glicine, nelle acconciature tradizionali. Sui rami fitti che costeggiano il fiume occhieggiano corvi scurissimi, blu notte.

Ci sono piccoli agglomerati di case. Poco alla volta ci si abitua al fruscio del vento tra quella vegetazione rigogliosa, allo sciabordio dell’acqua contro la prua. È un silenzio sospeso, denso di umidità in cui ci sente osservati da quella vegetazione millenaria. A un certo punto la nostra barca è costretta a fermarsi. Si è spezzato un grosso ramo ed è caduto proprio a metà dello stretto canale che stiamo percorrendo. Sopraggiungono altre due barche, la navigazione è bloccata. Un piccolo ingorgo del traffico in mezzo alla foresta pluviale! Una comitiva di indiani sull’altra barca scherza per il contrattempo mentre i marinai cercano di rimuovere rami e fronde dal corso d’acqua. Non posso fare a meno a pensare alle gondole quando cercano di destreggiarsi nei meandri della laguna (non a caso hanno soprannominato le backwaters del Kerala “la Venezia dell’Est”). La natura sa come rallentare la nostra impazienza.

La navigazione riprende. Scivolando lenti sull’acqua, si ritorna all’imbarcadero di Poo-var, un nome che si dice indicasse in lingua malayalam il fiore e la riva, un tributo a quella vegetazione lussureggiante. Lasciamo a Edwin delle cose per le sue figlie e i suoi colleghi. Gli altri pescatori si avvicinano anche loro, non sono lì per chiedere mance o altro; hanno capito che siamo andati d’accordo col loro collega, e ci salutano sorridendo: namaste, namaskaram, ripetiamo tutti reciprocamente con le mani giunte al petto in segno di saluto e amicizia.

Il viaggio in barca alle backwaters di Poovar è il ricordo dell’India che conserverò con più cura.

E tu sei mai stata in India, quali emozioni hai provato?

Namaste, namaskaram.

Al tuo benessere,

Antonella E. Gramone

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