Mai come in questi giorni di lockdown la tecnologia è diventata parte fondamentale delle nostre giornate. Tra internet, smartphone, smart working, lezioni scolastiche a distanza, e-commerce per gli acquisti online, siamo perennemente connessi.
È tutto un fiorire di piattaforme, nella stessa giornata mi è capitato di dover passare da Zoom a Go to meeting a Google Hangouts a Webexmeeting a Jitsi, per non dimenticare il classico Skype. Un villaggio globale, in cui spesso le linee sono più sovraccariche che su certe autostrade a Ferragosto dei tempi andati.
Come ci si sente in tutto ciò? Io non appartengo alla categoria dei cosiddetti nativi digitali.
Non faccio parte del gruppo di persone nate dopo il 1985, definite così da Mark Prensky in un suo famoso articolo del 2001 riferendosi a quella parte di società americana nata e cresciuta con multi schermi, interfacce grafiche e mp3.
Sempre secondo la definizione di Prensky, sono piuttosto un’immigrata digitale: una dei molti ibridi digitali, di quelli che le nuove tecnologie hanno imparato a usarle in un secondo momento, avendo frequentato anche il mondo di prima, quello dei gettoni del telefono, delle macchine fotografiche non digitali, delle televisioni in bianco e nero. Per non parlare di un terzo gruppo, quello dei tardivi digitali, i refrattari alla tecnologia tout court.
L’esperienza del lockdown sta mettendo in luce il potenziale positivo della tecnologia: telefoni, tablet e computer ci permettono di mantenerci in contatto con persone e contenuti con cui altrimenti non sarebbe possibile interagire, sia a livello personale che relazionale.
Ma tutto ciò (e lo dico a costo di sembrare ad alcuni non una ‘tardiva’ ma forse anche una paleodigitale o una arcaica digitale) non potrà mai sostituire interamente il contatto diretto: una stretta di mano, lo sguardo negli occhi o una battuta in un contesto di lavoro, in un incontro tra persone, a prescindere dall’età. Le parole scambiate davanti a un caffè generano spesso le idee più belle. È dai tempi di Aristotele che ci ripetiamo che siamo creature sociali.
Per questo, preferisco usare l’espressione viaggiatori digitali.
La tecnologia con le sue continue scoperte ci dà la possibilità di metterci ogni giorno in viaggio e di partire per l’esplorazione di nuovi percorsi e di imparare cose nuove con disponibilità e umiltà.
Ma sempre con la consapevolezza che, lungo questo viaggio, continuiamo ad avere bisogno di luoghi di aggregazione che non siano solo Feed, ma delle piazze vere, delle agorà non solo virtuali in cui ritrovarci a parlare e sorridere in carne e ossa.
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